La self-compassion può essere pensata come un’abilità umana allenabile grazie alla pratica che rende possibile prenderci cura di noi ancor prima di curarci
di Daria Venturini
Per cercare di comprenderla meglio proviamo ora a illuminare le zone d’ombra dal punto di vista del significato. Possiamo farlo iniziando a vedere cosa non è e a sfatare i falsi miti.
La compassione non è pietà intesa come “sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre”, non è solo empatia e dunque “capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona”, non è solo altruismo, non è amore sentimentale o genitoriale e non è nemmeno solamente gentilezza.
Questa preziosa abilità viene spesso vista con scetticismo in quanto sovrapposta all’auto-compatimento e per questo identificata come una forma di giustificazione alla passività. Quando ci compatiamo però siamo autocentrati su di noi e sul nostro problema: gli altri esseri umani, che possono avere una difficoltà simile, finiscono sfocati sullo sfondo. In questo modo si perde la connessione con gli altri, ci si sente unici nel proprio disagio e si tende ad aumentare il peso della sofferenza e gli atteggiamenti egocentrici ad essa legati. Quando ci compatiamo spesso finiamo per essere travolti da e fusi con la nostra situazione problematica.
Grazie alla self-compassion invece possiamo fare un passo indietro, de-fonderci, e vedere il nostro problema come se fossimo dal di fuori, in un modo perciò più oggettivo e più chiaro. Un atteggiamento di auto-compassione ci permette inoltre di poter notare la relazione tra le nostre esperienze dolorose e quelle degli altri aumentando il senso di connessione e di condivisione. Coltivare la self-compassion rende possibile l’emergere di uno spazio nella coscienza nel quale osservare la propria esperienza di vita, sia essa più o meno dolorosa, in un contesto più ampio.
Molte persone inoltre rifiutano di essere compassionevoli con loro stesse perché credono che questo li possa portare a lasciarsi andare e a giustificare comportamenti poco salutari. A dirsi: “siccome oggi sono davvero giù posso starmene tutta la giornata a letto a mangiare schifezze e fumare sigarette”. Questo è un atteggiamento auto-indulgente più che auto-compassionevole.
Coltivare compassione per sé significa ricercare un benessere non nell’immediato. Provare a coltivare uno stato di benessere, uno stile di vita salutare e in equilibrio richiede una certa dose di fatica e di umani fallimenti.
E’ qui che la compassione entra in campo rassicurandoci e permettendoci di essere gentili con i nostri rallentamenti, errori o fallimenti contrastando il senso di vergogna, di forte auto critica o di sterile autoflagellazione che possono derivare dalla sensazione di non farcela.
Il prendersi cura di noi con compassione ci regala sia una forte motivazione al cambiamento e alla crescita personale, sia la possibilità dell’accettare come siamo, di vedere come realmente siamo in questo momento, con le nostre umane debolezze senza vergogna né dura autocondanna.