ACT e trauma: l’uso dell’ACT nei disturbi associati ai traumi e il ruolo centrale della relazione terapeutica – Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/03/act-trauma-report-3g-2017/

 

In un recente articolo, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, Matthew Killingsworth e Daniel Gilbert definiscono così la questione: “Molte tradizioni filosofiche e religiose insegnano che la felicità si trova vivendo in questo momento (…); suggeriscono che una mente errante è una mente infelice. Hanno ragione?

Killingsworth e Gilbert hanno ideato un disegno di ricerca attraverso un’applicazione scaricata dai partecipanti sui loro cellulari, raccogliendo dati simultanei da più di duemila persone.

L’applicazione mandava dei messaggi contenenti domande sullo stato d’animo e le attitudini:

  • Come ti senti adesso? dando la possibilità di rispondere su una scala graduata su cinque gradini, da “molto male” a” molto bene “
  • Cosa stai facendo in questo momento?
  • Stai pensando a qualcosa di diverso rispetto a ciò che stai facendo attualmente? – se si rispondeva di sì, veniva chiesto di segnalare se l’esperienza immaginata fosse piacevole, spiacevole, o neutra

In linea con gli studi precedenti, le persone hanno riportato che la mente vagava per circa la metà del tempo. La scoperta importante, però, è stata che le persone, quando le loro menti vagavano tendevano a focalizzarsi su pensieri negativi, e avevano stati d’animo più inquieti e infelici. Dunque, in linea con la tradizione, e come recita il titolo della ricerca, una mente errante sembra essere davvero una mente infelice.

Non è tanto il sognare ad occhi aperti che ci rende infelici, quanto il fatto che nella maggior parte dei casi lo scenario immaginato non è affatto piacevole. Anche nell’attività onirica, i sogni più comuni che facciamo non sono positivi: prima o poi tutti sogniamo di essere in qualche situazione imbarazzante, o, anche, di essere inseguiti…

Consideriamo anche le storie che risultano più attrattive al cinema, o in televisione. Molti tipi popolari di narrativa corrispondono a esperienze che sono sgradevoli, o anche qualcosa di peggio. Molti spettatori sono attratti da storie raccapriccianti di zombie, cannibali, serial killer, camere di tortura, e simili. Altri, ancora, amano le storie tristi, o storie di tradimenti, perdite, abbandoni; insomma tutto il vasto campo della sofferenza umana. Passiamo tempo a intrattenerci con storie che ci fanno rabbrividire e piangiamo.

Questo era vero già ai tempi dei classici greci e latini, dove il pubblico sperimentava piacere a contatto con le emozioni negative evocate da tragedia. Ci deve essere dunque un motivo se le nostre menti funzionano in questo modo e, probabilmente, il senso è che tendiamo a imparare di più nella sofferenza che nella gioia, il che, naturalmente, dà un senso all’esperienza del dolore, che ci chiede di essere attraversata con un atteggiamento di profonda accettazione. Ma dov’è il valore di spendere tanto tempo a pensare a eventi spiacevoli che non sono neppure reali? Forse tendiamo a utilizzare scenari virtuali per prepararci a quella che è la vita reale.

Il bello della felicità, però, è che non si può ottenere, non si può programmare e non si può possedere. La si può solo accogliere, gustare, vivere in pienezza quando ci si ponga verso la vita con la pace nella mente e nel cuore, e con letizia, uscendo dal circuito delle cose da fare per entrare nel circuito dell’essere e dell’amare.