Compassione come gentilezza, umanità condivisa e consapevolezza

Per potersi addentrare nel mondo accogliente della self-compassion è bene soffermarsi qualche
istante sul significato della parola compassione
di Daria Venturini
Non è necessario essere dei linguisti per comprendere quanto è importante il significato delle parole nel produrre o meno pregiudizi, nell’evocare un particolare immaginario, nello sviluppare un’attrazione o una repulsione. Ebbene, quando sentiamo la parola compassione è possibile che molti di noi pensino al compatire e automaticamente al provare pena: un sentire legato alla vulnerabilità, alla fragilità, un sapore di fallimento possono attivarsi a livello quasi viscerale.

Come sempre però avere una mente aperta paga e possiamo scoprire che la parola compassione viene dal latino cum pati che significa “soffrire insieme”.

       Dunque non c’è qualcuno che dall’alto in basso consola, se stesso o un altro, in maniera velatamente o apertamente giudicante.

Compassione significa accorgersi della sofferenza e avere il desiderio di rispondere a questo dolore. Dove rispondere non significa scacciare né per forza sconfiggere ma significa guardare questa sofferenza, darle lo spazio che merita, significa familiarizzare con essa, significa prendersene cura ancor prima che curarla.

La sofferenza può essere vista non come una terribile sciagura o il segnale univoco di una psicopatologia, ma sebbene non desiderata, la sofferenza è un’esperienza umana universale: ogni uomo e ogni donna, ogni bambino e ogni anziano hanno sperimentato il dolore fisico ed emotivo. Questa semplice constatazione è il primo passo per allentare il senso di vergogna, l’autocritica ed il giudizio che il disagio emotivo può portare con sé.

Potersi ricordare che il dolore accomuna tutti, non solo chi si crede sbagliato o sfortunato, fa sorgere quella sensazione calmante e lenitiva che è il dono ultimo della self-compassion. Si può dunque parlare della compassione come di qualcosa che consiste in tre costrutti: gentilezza, umanità e consapevolezza (K. Neff, 2003).

Essere gentili e comprensivi con noi stessi quando sbagliamo, quando non ci sentiamo abbastanza capaci o sicuri, quando ci sentiamo in difficoltà o vulnerabili.

Grazie alla self-compassion possiamo sviluppare questo senso di calmante gentilezza verso di noi ed esserci di conforto e di sostegno come sappiamo esserlo con un caro amico in difficoltà o con un bambino.

Combattere rabbiosamente o negare le imperfezioni, le difficoltà o i fallimenti significa combattere e negare una realtà condivisa che è già qui; la lotta o la totale indifferenza non faranno altro che aumentare la sofferenza sotto forma di stress, frustrazione, rabbia e autocritica. Coltivando la gentilezza verso gli accadimenti della vita, ad esempio attraverso le pratiche di self-compassion, lenirà questi disagi facendoci fare esperienza di un maggiore equilibrio emotivo.

Abbracciare il senso di umanità condiviso, il secondo dei tre costrutti, ci permette di ritarare quei pensieri irritanti e intrusivi seppur irrazionali : “perché capitano tutte a me…nessuno ha mai sofferto così… sbaglio sempre tutto…”.

Non siamo soli e non siamo i soli a sentirci così e per questo possiamo divenire più comprensivi e meno giudicanti nei momenti di difficoltà.

La consapevolezza, infine, riguarda un’accettazione cosciente, non una resa passiva, dei pensieri e delle sensazioni dolorose che popolano il nostro mondo interno.

Con le pratica della self-compassion vedremo sorgere un atteggiamento equanime verso le emozioni e le sensazioni sia positive che negative come la mindfulness stessa ci insegna. Coltiveremo un atteggiamento
equilibrato verso le sensazioni negative non tentando né di esagerarle, né di sminuirle o
sopprimerle.

La mindfulness ci aiuta qui a osservare, con una mente aperta, pensieri, emozioni e sensazioni come ospiti con i quali proveremo a non fonderci e a non identificarci per limitare le reazioni impulsive e imparare a poter scegliere se e come rispondere a questi ospiti che ci hanno fatto visita.

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