Loving kindness: il coraggio della gentilezza

La pratica della gentilezza amorevole (o loving kindness), pur non essendo una delle
attività necessarie nel protocollo MBSR, è comunque fortemente consigliata, e può
donare maggiore equilibrio, gioia e soddisfazione, soprattutto a chi si trova a dover
sostenere forti stress relazionali o è incline alla tristezza e all’autocritica
di Francesca De Luca
Come mai accade questo?
Il mondo in cui viviamo non è in verità molto tenero. Siamo costretti a combattere per quello a cui teniamo, nessuno regala niente, e tutti sono pronti a prenderci quello che abbiamo. Occorre farsi valere, fin quasi a prevaricare per non essere prevaricati, in una “lotta” continua ed incessante.

Siamo lontani dalla gentilezza che sembra essere sempre più qualcosa di astratto, irraggiungibile e “pericoloso”.

Siamo tutti convinti che la gentilezza sia una “bella” qualità, che certamente ci fa piacere incontrare negli altri, ma che diventa sospetta o peggio pericolosa se iniziamo davvero a praticarla: non bisogna essere “troppo” gentili, i motivi li sappiamo bene.

La pratica della gentilezza amorevole ha a che fare con il nostro rapporto tra apertura e aggressività, collaborazione e difesa.

Ma se diamo valore (spesso inconsapevolmente) all’aggressività e alla rabbia, o più in generale all’avversione, tenderemo a svalutarla, trascurandola o considerandola una sorta di zuccherosa preghiera laica, adatta a chi ha Inclinazioni New Age o è troppo ingenuo per vedere la realtà; o magari quando proveremo a praticarla, finiremo per non sentire niente di speciale e finiremo per abbandonarla. D’altro canto, se svalutiamo l’aggressività o ne abbiamo timore, tenderemo a travisarla utilizzandola per reprimerci sviluppando un’artefatta condiscendenza verso il prossimo – un atteggiamento che in psicologia viene chiamato formazione reattiva.

Essere gentili è una vera e propria sfida che richiede il coraggio di rispettare noi stessi e gli altri. Ci richiede di sviluppare quanto ci ha reso e rende più umani: l’apertura alla collaborazione amichevole. Siamo per nostra natura esseri sociali, tendiamo spontaneamente a collaborare con gli altri regolando le spinte aggressive, per costruire un bene superiore.

Se ci guardiamo intorno, ogni aspetto del nostro mondo esiste grazie alla collaborazione, al saper stare insieme, comunicare, negoziare, progettare e, in ultima analisi, comprenderci reciprocamente.

La pratica meditativa dell’amichevolezza fu sviluppata prima del V sec. BCE in India. Precedente alla nascita del buddhismo, fu poi inclusa e ulteriormente elaborata da questa tradizione filosofica e religiosa in oltre 2500 anni. Il termine che oggi traduciamo con amichevolezza o gentilezza amorevole (loving kindness) è metta, una parola che nella lingua Pali ha lo stesso insieme di significati della parola greca agape, ossia amicizia e amore fraterno.

Insieme alla compassione (karuna in Pali), alla gioia altruistica (mudita) e all’equanimità (upekkha), compone le quattro Dimore Divine (brahmavihara) – un nome molto suggestivo, che allude al fatto che chi vive con
amicizia, compassione, gioia ed equanimità è analogo agli dei.

Il Buddha, nel Metta sutta, descrive chiaramente come si dovrebbe coltivare la benevolenza, arrivando a dire: «Come una madre proteggerebbe il suo unico figlio con la vita, così si dovrebbe coltivare una mente illimitata verso tutti gli esseri viventi» (ivi, p. 29 – nostra traduzione dall’originale inglese).

Il punto centrale di questa frase, spesso tradotta in modo impreciso, non è il sentimento di amore, ma l’intenzione di
dare protezione – e il coraggio che può richiedere.

Intesa in questo modo, la pratica della benevolenza può sostenerci nel creare intorno a noi un clima sociale di amicizia, protezione e collaborazione, in cui i diritti di ciascuno siano rispettati.

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